Articoli su Giovanni Papini

2002


Alberto Castaldini

Patria, l'Italia e l'universalità
Pubblicato in: Cartevive, anno XIII, num. 2, pp. 33-41

31-32(33-34-35-36-37-38-39-40
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Data: luglio 2002



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«Non posso accettare il pensiero che l'Italia
sia finita e finché io vivo farò del mio meglio
perché la sua tradizione spirituale non sia morta»

GIOVANNI PAPINI nel 1945


   Giovanni Papini nutrì nei confronti dell'Italia un amore costante, incondizionato. Il suo era sentimento puro verso quella patria che nella città natale - Firenze - trova una delle sue più rappresentative e compiute espressioni.
   Papini nella sua vita viaggiò pochissimo. Eccettuata la breve parentesi parigina agli inizi del secolo - esperienza necessaria, quasi iniziatica per un intellettuale dell'epoca - lo scrittore raramente usci dai confini della Toscana. Fu spesso a Milano, si stabilì per un breve periodo a Roma (responsabile della pagina culturale de "Il Tempo" di Filippo Naldi da cui si dimise ben presto), andò a Torino perché vi morì improvvisamente il padre. Gli orizzonti di 'Gianfalco' spaziavano abitualmente dalle rive dell'Arno ai monti di Bulciano, nell'alta Valle del Tevere, e non arrivavano nemmeno alle Crete senesi o alle colline del Chianti, più familiari all'eremitico Giuliotti, il 'contadino di Greve'.
   La mente dello scrittore però superava facilmente i confini geografici e approdava nei contesti culturali più disparati attingendo ai nuovi fermenti del pensiero. Papini fu dunque intellettuale itinerante, eppure ben radicato nella sua Firenze - città universale -, viaggiatore instancabile anche se fisicamente proiettato sulle proprie carte.
   Nella sua esperienza intellettuale e umana conobbe anche il nazionalismo. Papini collaborò al "Regno" di Corradini, e nel 1915 fu un acceso interventista. Finito il primo conflitto mondiale, scrisse una Dichiarazione d'amore al popolo italiano piaciuta a tal punto a Giuseppe Prezzolini, che volle inserirla nella sua antologia Tutta la guerra.


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   Dopo la conversione, compiutasi intorno al 1920, iniziò il periodo della piena maturità dello scrittore. Papini era profondamente mutato, e il suo superomismo si era stemperato, l'animosità intellettuale era volta alla grandiosa visione della fede cristiana. Lo 'stroncatore' divenne 'apologeta' e scrisse la Storia di Cristo, Sant'Agostino, Dante Vivo.
   Mentre in Papini lo scrittore si fondeva con il credente, la nazione si identificava sempre più con il fascismo.
   Quello che era ormai indicato come uno degli intellettuali più rappresentativi del 'ritorno all'ordine' voluto dal regime (Luigi Baldacci ricorda come questo contribuì a far dimenticare ai posteri la sua celebre "intelligenza eversiva") decise alla fine degli anni Trenta di scrivere Italia mia.
   La prima edizione uscì per gli amati tipi di Attilio Vallecchi nel 1939, e si arricchì nel 1941 di un nuovo capitolo (l'VIII) intitolato Questa guerra, i cui contenuti sanciranno la condanna pressoché unanime della critica del Dopoguerra.
   Con il volume lo scrittore desiderò offrire «una sintesi, una quintessenza, una visione compendiaria ma totale dell'aspetto, del popolo, della storia, del genio della nostra Italia. Dire di essa in brevi e calde pagine, ciò ch'è disperso in troppe e spesso troppo gelide: convergere l'attenzione sull'essenziale, sul cardine storico maestro, sui segreti evidenti e perciò tanto meno palesi» 1.
   Questo volume "piccolo", ma di "grande proposito" e "alta ambizione" riceve ancora oggi il biasimo dei conoscitori dell'opera papiniana, anche di coloro che hanno sinceramente auspicato una riscoperta dello scrittore fiorentino.
   Carmine Di Biase definisce Italia mia una "caduta banale", «senza possibilità di appello, scadente sotto ogni risvolto» 2, dove le ragioni addotte a sostegno del "primato italiano" nella storia europea e mondiale rivelerebbero l'accettazione di un deleterio conformismo politico, di un ruolo pubblico che il Papini reazionario sembrava sposare di buon grado.
   Per Vittorio Vettori nell'opera «il motivo poetico della patria viene a sviarsi in una pesante retorica celebratoria. Siamo qui dinanzi a una sorta di accademia della politica» 3.


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Giovanni Papini in una foto-cartolina del maggio 1923 (Donazione Giuliano Prezzolini, Archivio Prezzolini Lugano).



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   Mario Isnenghi non si limita a ritenere il libro un "passo falso", «una concessione ai tempi e una testimonianza dei compromessi pratici dell'uomo», quanto «piuttosto un pesante e ineludibile documento della fragilità d'impianto e di pensiero, delle sue stesse incoerenti e oscillanti posizioni di intellettuale impegnato in senso reazionario» 4.
   In Italia mia - soprattutto nell'edizione del 1941, quando l'Italia stava combattendo già da un anno a fianco della Germania - Isnenghi individua sin dall'inizio la "sufficienza untuosa dello stile", che introduce alla successiva esaltazione del primato nazionale, della missione storica nella nuova Europa. La colpa maggiore di Papini sarebbe stata quella di rileggere la storia italiana in funzione del fascismo e del suo capo. Non solo. Isnenghi osserva come «il fascismo rappresenta l'esempio del necessario tornare a innestarsi della politica sulla religione, nel quadro dei comuni valori d'ordine, autorità e gerarchia» 5. Il Papini accademico, aspirante vate nazionale, che invoca una unificazione dell'Europa in cui l'Italia possa divenire "avvocata della civiltà occidentale" 6, non merita per i critici - anche i più indulgenti - alcuna possibilità di appello.
   Eppure, anche in quelle pagine - davvero goffe e forzate - in cui l'amor patrio si mescola - perdendo di sapore e incisività - con un nazionalismo condizionato dagli eventi, ci pare di scorgere una dannosa assenza di spirito critico piuttosto che una mediocre mossa di comodo. Come sottolinea giustamente Vettori «l'onestà e la sincerità dell'uomo Papini in rapporto alla sua adesione al fascismo erano assolutamente fuori discussione. Papini giungeva al fascismo dal nazionalismo su di una linea di evidente coerenza: non per calcolo, dunque, ma per convinzione. [...] Per la sua posizione di prestigio nel mondo oltre che per la sua naturale fierezza, era superiore perfino al sospetto così di ogni atto di viltà come di ogni parola di adulazione» 7.
   Papini di fronte al fascismo mantenne inizialmente un atteggiamento di distacco o quanto meno di cautela. Poi cedette e aderì al nuovo corso. Carlo Bo ha ipotizzato che l'abbia fatto per uscire dall'isolamento in cui era caduto dopo aver perso ogni contatto con la nuova cultura letteraria dell'epoca. Egli forse nutrì l'illusione di


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rimettersi in gioco, ma fallì, entrando in quel 'purgatorio' culturale da cui non è ancora completamente uscito 8.
   L'adesione di Papini al fascismo non fu in ogni caso schiettamente ideologica, ma ispirata da un'intima convinzione, che il regime cioè promuovesse quella grandezza culturale italiana in cui egli credette fermamente lungo tutto il suo itinerario intellettuale.
   La fede in questa grandezza la ribadirà nell'intervento al Convegno dell'Unione europea degli scrittori a Weimar, nel 1942, suscitando il disappunto germanico.
   Tornando alle pagine di Italia mia Papini vede nell'Italia un ponte ideale tra il mondo nordico e quello mediterraneo», un «compendio di tutte le terre, principio e rifugio di tutte le civiltà» 9. Efficace appare un'altra immagine: «L'Italia è il miracoloso microcosmo di quel macrocosmo che è la terra» 10. Non ci sembra questa l'esaltazione di una superiorità, ma la percezione di un ruolo ideale che, per lo scrittore, la storia stessa ha conferito alla penisola.
   Anche la "grandezza" dell'Italia e degli italiani, concetto che ritorna sovente nel volume, per Papini non è mero esercizio di una supremazia, ma la conseguenza di una missione storica che egli avverte prima di tutto nella sua anima religiosa, piuttosto che in senso politico. «Il popolo italiano ha l'istinto e l'amore - non la mania - della grandezza» 11, afferma, aggiungendo qualche riga più avanti che la «nostra antichissima esperienza c'insegna che dominare significa servire 12. [...] e il popolo che da Dio ebbe doni maggiori in nessun altro modo può manifestarli ed accrescerli che ponendoli al servizio degli altri popoli, come appunto hanno fatto, sempre, gl'Italiani» 13. In una delle sue Schegge, anni dopo, arriverà a parlare di una superiorità ascrivibile all'anima "naturalmente cristiana" degli italiani 14.
   Mario Apollonio scrisse che in Italia mia Papini, al di là dello scopo propagandistico, veste i panni d'interprete e di storico e propone una «conciliazione religiosa della storia e della cultura» 15. Una visione questa che egli propose nella sua lettura del Rinascimento.
   Ingenuità quella di Papini? A tratti pare di scorgerla, venata di quel titanismo - residuo giovanile - che se appare fuori luogo, non soggiace a opportunismo alcuno. Papini non ne aveva affatto bisogno. Per questo ci sentiamo di condividere il giudizio di un suo sapiente ed


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equilibrato biografo, Roberto Ridolfi, secondo il quale il libro «contiene, e specie in principio, pagine belle accanto ad altre meno felici e ad altre ancora che oggi rendono un suono falso. Ma vero e sincero v'è l'amor patrio, anche se talvolta ha fatto travedere l'autore» 16.
   In alcuni passi l'intonazione italocentrica del libro viene ridimensionata con sapienti immagini. L'Italia che «ha mutuato qualcosa da ogni popolo di Oriente e di Occidente» 17, nei "suoi momenti sublimi", «coincide collo spirito della storia e col destino del mondo» 18. Da qui l'esaltazione del genio nazionale, tale quando è "universale" 19.
   Verso la fine dell'opera Papini arriva addirittura a superare gli schemi ideologici del tempo, in un periodo in cui la sudditanza italiana nei confronti del Terzo Reich era politicamente netta. Egli definisce il popolo italiano non so lo una "razza" (non certo questa una concessione di Papini al razzismo fascista, ma piuttosto un dichiarato superamento dei suoi schemi), «ma qualcosa di più: una civiltà, una cultura, una tradizione, un fratello spirituale di ogni popolo civile» 20. E citando l'apostolo delle genti così scrive: «Grazie alla sua armonica complessità l'Italia può essere, per usare l'espressione di san Paolo, "Tutto a tutti"» 21. Solo in questo modo «essa potrà unire l'Europa perché l'Europa tutta è già unita in lei, nel suo sangue e nella sua anima» 22.
   Papini rifiuta il ruolo di qualsiasi potenza egemone nel continente e sogna una "respublica christiana".
   Per questo ricorda ai giovani che l'Italia «per sua stessa natura, non può e non deve fermarsi al Nazionalismo» 23. "Chauvinisme e xenofobia" oltre a non appartenere al lessico patrio, secondo lo scrittore relegano la nazione in un "sacro egoismo" 24. Che Papini, pur volendo esaltare i caratteri autentici della composita tradizione nazionale, non apprezzasse gli eccessi dell'amor patrio, lo si intuisce già nel 1924, intervenendo sul foglio universitario "La camerata", pubblicato in occasione del centenario *. dell'ateneo di Firenze. Papini descrisse quello che è l'autentico "amor di patria", che «non consiste soltanto in gridi e inni ma nel ritrovare, della patria, le giuste e nobili fattezze sotto l'impiastricciature e le croste forestiere; consiste, prima di tutto, nel disubriacarla e disavvelenarla con onerosa rudezza» 25.


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   È l'amore il sentimento ispiratore della missione spirituale dell'Italia, e l'amore per l'Italia «non può che diventare una delle forme del nostro amore per gli uomini» 26. Quello stesso "fortissimo e caldissimo amore" che Papini ha sempre nutrito nei confronti della sua terra, e che egli spera possa riscattare i difetti e le manchevolezze di Italia mia 27.
   Scrivendo questo libro Giovanni Papini commise certamente un'ingenuità, incappò in una drammatica illusione, piuttosto che subire la sua peggiore caduta. Era nell'indole dell'uomo: non si può certo dire che lo scrittore abbia tratto grandi vantaggi dalla sua adesione al regime fascista. Sessantenne, aspirava - lo ripetiamo - a rivestire nuovamente i panni di 'guida' nella società letteraria, ma nemmeno la decennale esperienza del "Frontespizio" fu in grado di restituirgli in quegli anni il carisma perduto, né lui fu in grado di riappropriarsene. Solo la guerra, l'isolamento e la malattia lo permetteranno.
   Non divenne mai uno dei corifei del regime. Il suo animo amava troppo l'indipendenza. Nutrì ammirazione per Mussolini, questo sì, ma fu una stima ricambiata, e condivisa anche da Prezzolini. In fondo anche il capo del fascismo era stato un 'vociano'.
   Va poi detto che l'amore per la propria patria Papini non lo esaurì nelle pagine, spesso mal riuscite, di questo osteggiato volume.
   Come abbiamo già detto egli ribadì i suoi più autentici sentimenti nel discorso di Weimar, quando fissò in tre concetti il messaggio dell'Italia alle nazioni: realtà, classicità e universalità.
   L'ultimo di essi riassume idealmente gli altri due, e infatti Papini ricorda che «l'Italia è veramente se stessa quando assume su di sé un compito ecumenico che può essere volta a volta, politico o religioso o estetico. Fu politico con l'Impero Romano, religioso con la Chiesa Romana, plastico e letterario coll'Umanesimo e col Rinascimento» 28. Cristianesimo e latinità costituirono gli altri due temi conduttori della relazione, che fini per urtare la sensibilità germanica 29. Del resto va ricordato che Papini sin dagli anni Trenta prese posizione contro il razzismo germanico nel noto articolo apparso sul "Frontespizio" e intitolato Razzia dei razzisti 30.
   Con il discorso di Weimar Papini uscì dalla scena culturale per riapparire nel 1946 sotto le sembianze di papa Celestino VI. I volumi


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Racconti di gioventù e Cielo e terra, usciti nel 1943, segneranno il suo temporaneo commiato dai torchi.
   A quasi mezzo secolo dalla morte, preceduta dalla 'seconda conversione' - quella della sofferenza, dell'immobilità fisica ma non spirituale - Papini attende ancora una meditata e progressiva rilettura della sua opera, sempre intimamente dedicata a quel popolo, che in una delle sue innumerevoli dichiarazioni d'amore descrisse come «il migliore con tutti i suoi vizi, il più eroico con tutte le sue debolezze, il più geniale con tutte le sue imbecillità» 31.

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